La parola scelta per il titolo della coreografia ha indiscutibilmente quel tocco lieve che anche la scena aperta lascia presagire: “Sfioro”
Mi trovo tuttavia su di un terreno che amo molto ma che nello stesso tempo sento impervio.
Non sono la sola, perché si tengono fior fiore di seminari sul ‘senso della danza contemporanea’, e ne parlano a livello tecnico come a livello teorico; così come ci sono scuole proprio differenti di pensiero e di danza. E poi c’è il pubblico e questo è il secondo aspetto interessante di uno spettacolo dal vivo: sei a contatto con la gente e partecipe delle loro impressioni.
Rimango delle mie idee, che sono abituata ad affrontare a seconda delle tematiche che mi sollecitano, nella danza contemporanea per me ci deve essere una forte tecnica (possibilmente base classica) che non sia travalicata dalla ‘gestualità’ e una grande duttilità mentale che si può esprimere nel movimento al di là della puntualità del passo, di cui però non farei necessariamente a meno.
Può nascere anche all’interno del repertorio accademico classico, cioè dei balletti che lo rappresentano, come può essere frutto di un albero completamente nuovo ed esprimere sentimenti universali o meno, anche la filosofia di un sasso, se ci riesce. Perciò può essere narrativa o astratta; e secondo la regola generale gradevole oppure ostica, senza nulla togliere all’integrità artistica di coreografi e interpreti.
Questo in poche e sentite parole.
Dopo di ciò, molto semplicemente che faccio? Decido che esiste un ambito contemporaneo in cui si muove anche la danza; e che già analizzare questo “spazio del reale” è un bel lavoro. Allora vado a teatro e guardo e generalmente cerco con tutta me stessa di fare due cose: comprendere l’emozionalità che mi è stata trasmessa, proprio a livello percettivo, perché dal movimento danzato mi aspetto questo, e decidere dove collocare ciò che ho visto.
C’è ancora una cosa che vorrei dire: mentre da un balletto classico mi aspetto un certo tipo di sensazione e normalmente mi piace un livello tecnico alto e un allestimento curato; per la danza contemporanea mi sono accorta che cerco il movimento, non il passo o l’ensemble e il virtuosismo… ma essenzialmente come si muovono quel corpo o quei corpi in scena (che presuppone comunque l’apprezzamento del livello qualitativo); perché se tolgo la rigidità e il rigore del canone, cerco però qualcosa d’altro.
In questa coreografia che era l’apertura dello spettacolo vero e proprio del 31/03/2016 della Compagnia Zappalà a Torino, dove ha danzato “Anticorpi”, ecco sono stata sfiorata dalla potenzialità del brano coreografico contemporaneo, che ho visto.
Dunque un assolo coreografato da Federica Pozzo, piemontese, e interpretato da Ilaria Quaglia su sonorità di Gabriele Ottino e scene di Cristiana Valsesia, Produzione GAP (Giovani Artisti in Prova), in collaborazione con il Festival Interplay, un brano in bianco che puntualizza il gesto come espressione della proiezione dell’io verso l’esterno. Quindi una sorta di uscita dal bozzolo, verso quella che è la realtà. Il senso del reale è dato dall’oggetto scenico: una sedia trasparente prima posata lateralmente, una sorta di pergamena con parole in corsivo, srotolata a terra e questa struttura geometrica da cui ‘si svolge’ la danzatrice per abbracciare gradualmente la scena.
Un corpo solitario che è stato sul palco parecchio: i movimenti c’erano, in una ricercata gestualità, anche varia, ma alla fine non evolvevano. Molto curati, intensamente provati da questo corpo di danzatrice, in un continuo mutamento. Le cose speciali ti toccano, non ti sfiorano soltanto, penso io. Eppure questo voleva essere il messaggio intrinseco: ci si avvicina alle cose “come per”, ma ci si ferma lì, le si sfiora appena, senza toccarle veramente e il gesto muta di nuovo.
Mi chiedo se così l’attimo non si perda per sempre.
ph: A. Macchia
Grazie
Stefania Sanlorenzo