“C’era una volta un Lago…”
Dopo la Prima, con un video e qualche bella fotografia avevo brevemente commentato la programmazione de “Il Lago dei Cigni” nella ricostruzione di Alexei Ratmansky, in scena alla Scala fino al 15 luglio 2016.
Nella messinscena il coreografo si rifà alla versione originale Petipa-Ivanov, in coproduzione con l’Opernhaus Zürich, in una chiave di montaggio già sperimentata con successo ne “La Bella Addormentata” (coprodotta con l’ABT statunitense).
Sottolineai due elementi che mi avevano colpito da subito: l’interpretazione della giovane Prima Ballerina, Nicoletta Manni, con il suo degno principe, Timofej Andrijashenko; e la sensazione che il Corpo di Ballo scaligero fosse calato nella sua giusta misura per passi, coreografia d’insieme ed espressività.
Tanti punti a favore perché fosse uno spettacolo di successo, quale ha riscontrato.
Credo che fiumi d’inchiostro abbiano raccontato di questo balletto del repertorio classico, che rientra nella ‘Trilogia di Tchaikovsky‘: Schiaccianoci, Lago e Bella, tanto quanto compagnie di balletto e corpi di ballo dei Teatri nel mondo, lo abbiano rappresentato in milioni di versioni.
Il cinema stesso lo ha messo in risalto con “Black Swan” e il suo chiaro risvolto psicologico dello sdoppiamento fra cigno bianco e cigno nero e la personalità ancipite e disturbata della magnifica protagonista.
La chiave di lettura in questo caso è molto diversa e direi che percorre proprio una strada volutamente opposta a quanto finora sta succedendo. Sintetizzando al massimo, non me ne vogliano i critici di fama, la danza ha avuto la sua evoluzione nella “contemporaneità”, che ne ha cambiato tanti aspetti e non necessariamente tutti insieme. Tecniche, metodologie di studio, espressività drammaturgica, risvolto nel sociale, sperimentazione e ricerca e il repertorio originario, accademico, tutto è stato messo in gioco; spesso il repertorio sembra essersi fossilizzato a una nicchia: quello dei grandi balletti russi, filtrati in Europa poi attraverso la scuola inglese, che però rimane un poco a sé, in perfetto stile british. Nei vari Paesi del Vecchio Continente la danza trova i suoi canali, come, importata negli USA, qui esplode nelle sue incredibili e già cambiate (rispetto alla matrice russa) potenzialità. Ora all’interno di questo tortuoso percorso artistico una personalità come questo coreografo impone la sua peculiarità.
Ratmansky che cosa fa veramente?
Quando rimane nel repertorio tradizionale, parte dalla notazione originale; quindi parliamo proprio del linguaggio, che poi diventerà ensemble coreografico attraverso la trascrizione in passi… come in un cifrario: dai simboli si passa da un codice interpretativo a un altro e si arriva alla comunicazione effettiva del movimento danzato e narrativo.
Lui studia. Compie un interessante e, per le mie corde, curiosissimo lavoro di ricerca stilistica e filologica e arricchisce addirittura la notazione di partenza con qualcosa che è ancora più intriso di storia del passato. Torna indietro, salta a piè pari tutta l’evoluzione dell’ambito contemporaneo (anche nelle scelte tecniche e virtuosistiche dei danzatori, che si sono molto potenziate) e nell’antico approda a un prodotto assolutamente fruibile in chiave attuale.
Come per le fiabe o le favole.
Le leggi oggi come ieri. Omero parla sempre la stessa lingua ed è il greco antico…. anche l’alfabeto è diverso (simboli/trascrizione…), ma quando lo leggi, l’eco della sua poesia permane da un passato tanto lontano che ha annullato nella sua vera essenza lo scorrere del tempo. Siamo noi che ci siamo arricchiti, siamo cambiati, abbiamo ampliato i nostri orizzonti, perso e, si spera, recuperato gusto, siamo noi che percepiamo nel modo che ci è più consono qualcosa che non sia stato snaturato.
Ratmansky pare che abbia trovato questa ‘nuova’ dimensione in cui lavorare. Un ammirevole colpo di genio, perché ciò che ottiene c’era già, ma non si vedeva in questa luce.
Insomma è come se avesse cambiato montatura agli occhiali e dato una bella ripulita alle lenti.
Nella stessa ottica ha contribuito l’allestimento a cura di Jerome Kaplan; permettendo dettagli minuziosi che hanno rigenerato il balletto del 1895, facendone emergere la FIABA, senza nulla togliere alla bellezza dei passi, esaltati da una musica sempre toccante e lasciando i pezzi di alto virtuosismo che attendiamo frementi, come spettatori.
Hanno reagito tutti bene, infatti: ballerini, corpo di ballo e pubblico.
La danza e la pantomima fantasiosa o drammatica sono state saggiamente ridivise e ricollocate.
“C’era una volta un Lago…”, è vero ma c’erano fanciulle vere e giovani, molti interpreti maschili in ensemble ricchi e numerosi, giocati su salti e batterie veloci e pulite, come per quanto è richiesto al Principe stesso. Il racconto è umano, fantasioso, colorato e animato.
Poi ci sono i cigni, bianchi e neri, anche bambini, tragicamente tali, ma smorzati nei movimenti del loro ‘essere cigni’. E un arco che apre a una atmosfera gotica delimita la scena ed è quanto ci dice di ‘questo lago’.
Nicoletta Manni è se stessa: grazia e bravura mutano fra cigno bianco e la sensualità del cigno nero. Fino alla fine una figura reale e destinata, come il suo principe, non al lieto fine. Questo è il presagio che aleggia nei cambi di atmosfere; mentre diverse e varie suggestioni si offrono allo spettatore che guarda il dipanarsi di una fiaba antica e appena leziosa.
(ph: Brescia Amisano, Teatro Alla Scala)
Stefania Sanlorenzo