“Per favore, Stef, non piangere ora! Non c’è tempo. Non c’è spazio.”
“Ma sarebbe una faccenda dignitosamente soft….”
“Okay, cinque minuti e in scena!!!”
Sapete tutti immagino delle chiamate… dieci minuti in scena, cinque minuti; tre minuti e si va in sceeenaaa! Ecco funziona più o meno così, quindi noi tendiamo a comunicare anche in situazioni decontestualizzate, come ci pare normale. I momenti di cedimento capitano quando capitano e succedono anche quando manca 1 minuto, 1, per entrare in scena. Quindi che non ci sia tempo (quel tipo di tempistica lì) mi pare chiaro; il fatto proprio consiste nel non esserci neppure SPAZIO.
Immagino il pubblico sulle sedie più o meno comode e imbottite di un TEATRO QUALSIASI (o luogo facente funzione): si creano due dimensioni destinate a trovare una loro dinamica, un flusso di andata e ritorno, che possiamo chiamare risonanza e percezione.
La domanda è quale sia la percezione del pubblico dello spazio scenico, perché essa è sicuramente diversa da quella dei danzatori che stanno dall’altra parte. Ripercorrete con la mente lo spazio che vi separa dalla buca dell’orchestra (alle volte la buca non c’è, ma l’Orchestra è meglio ci sia…. magari non c’è neppure l’orchestra, ma questo spazio fisico esiste) adderall xr, poi unite il proscenio e vi si apre la visione prospettica del PALCOSCENICO vero e proprio, diciamo a partire dalla “linea del coro”. Proprio quella famosa: “A Chorus line”, che è ancora un poco arretrata. Vi ricordate il famoso musical a Broadway del 1975, e nelle sale come film nel 1985 con Michael Douglas?
Diverse realtà macroscopiche definiscono questo spazio, per esempio le QUINTE. Certamente il SIPARIO, ma diciamo che ce ne sono di vario tipo, la sua funzione è utile, ma io preferisco recuperare la profondità di campo a sipario aperto. Fino al FONDALE, piatto, in 3D, dipinto, incorniciato comunque sia fatto.
Alcune delle ‘zone’ dello spazio in SCENA sono occupate dagli oggetti scenici di volume e senso diverso. Dipende anche dalla tipologia del balletto o dello spettacolo (per andare sul generico): pomposo, scarno, essenziale o ridondante, sdolcinato, serio, conturbante, disorientante.
Vuoto.
In ogni caso si presenti, questo ‘vuoto’ sarà colmato.
Non si vedono, se non al loro utilizzo, ma cavi elettrici, montanti, carrucole, riflettori, corde, funi, e una moltitudine varia di oggetti sicuramente utili (barre di metallo) e assolutamente pericolosi, https://health-e-child.org/buy-modvigil-online/ riempiono lo spazio sia terrestre fra e dietro le quinte e il fondale, sia quello aereo, proprio sopra le teste dei ballerini…. File di luci ovvio davanti in basso in alto di lato, spot, (l’occhio di bue), per tutti gli effetti speciali che lo spettacolo richiede, per esaltare e nascondere. Per confondere o spiegare.
Insomma il teatro da quando esci dai camerini è una dimensione di extra pieno, rispetto allo spazio scenico che nasce vuoto, ma per essere colmato dalla presenza fisica dei danzatori, inseriti nel contesto scenografico. Il tutto in un VIA-VAI CONTINUO, frenetico, a inciampo pressoché sicuro, concitato ecc… C’è quel PASSO, signori del pubblico, che non so quanti abbiano in mente, nell’istante in cui il ballerino oltrepassa la quinta ed è sul palco; ecco lì c’è tutto. E’ l’inizio della presa phentermine diet pills di coscienza della DIMENSIONE SCENICA.
Talvolta si è pronti, altre no. Comunque si lavora per questo momento. Per ridisegnare un vuoto con geometrie visibili o nascoste. Con emozioni legate ai passi, alle braccia, all’espressività corporea. Tutto esiste ma è immerso in questa spazialità che viene usata, per definire qualcosa, un disegno, o per eludere il ‘tutto’ e aprire al caos. All’entropia.
Narrano una storia o solo un filo immaginario di pensieri che si materializzano nello spazio scenico che noi vediamo proprio perché non è più vuoto. Talvolta è musica che i corpi seguono in astrazione anti-narrativa, talvolta è danza senza musica da sentire, ma solo da vedere, che fluisce attraverso i corpi. Sono muscoli e ossa che si muovono nello spazio reale, ma non sono ancorati a nessuna realtà se non al proprio sentire.
Percepiamoli così e, forse è il caso di dirlo, percepiamo i limiti e allargherebbero i confini, per tutti.
“Vero, Marghe? Ora mettiamo su il nostro tè”.
To be continued…
Stefania Sanlorenzo
in copertina: tela di Cammarano-Teatro San Carlo di Napoli