Ognuno ha il suo angolino privato; un suo cantuccio dove tutto è comfort e possibilità. Dove mangiamo un panino e pisoliamo oppure parliamo con le amiche. La Stef ha la sua scrivania, con il tè e le pizzette, i video di danza e le parole dei libri che ama. Io ho quasi più spazi virtuali adesso che mi fanno divertire, mentre quelli fisici li sposto in continuazione cercando la posizione atta a farmi i “casi miei”, ambendo a non essere interrotta troppo, (gatti che miagolano innamorati, bambino rumorista official di spade laser e mitragliette, gruppi wapp, l’arrotino, raccomandate, testimoni oculari, signora scusi pubblicità in cassetta, vari ed eventuali).
C’è un luogo e magico, in cui tutto può succedere, in cui tutti siamo a casa eppure stranieri, che ci fa cambiare attitudine a seconda di quanti metri ci separano da esso o se ci stiamo proprio sopra. Questo posto miracoloso è lo spazio scenico. Non credo che oggigiorno abbia più senso chiamarlo palco; molte performance ed esibizioni, piuttosto che messe in scena con azioni coreografiche, sono fuori dal teatro, nei posti più disparati e fantasiosi: da musei a ex fabbriche, da vetrine dei negozi a centri commerciali. Mi sembra lecito, alle volte anche molto bello e sacrosanto.
Credo sia una prerogativa dell’arte, della danza in particolare seppur con qualche difficoltà tecnica, avere la necessità intrinseca di uscire dai luoghi istituzionali e andare incontro non solo a un pubblico diverso, ma a uno spazio diverso. Questo costringe le coreografie a partire da altri presupposti, forzando o aggiungendo limiti alla danza. Consentiteci un inciso: “Stef, i limiti allargano i confini”.
Lei guarda per aria, poi mi fissa perché pensa che potrebbe essere una delle mie stupidaggini da spiritosona. Stringo le labbra cercando le parole… E lei, che è mia amica da tempo, capisce che il rumore metallico, che si ode di sottofondo, sono le mie rotelle. Prende una pizzetta e mi spiega lei cosa, in italiano, e non in bofonchi inarticolati da bocca piena, penso io. “Certo, non aver nessun limite porta alla dispersione, la dispersione porta alla troppa scelta che a sua volta, induce alla crisi e a riproporre modelli che hanno già funzionato in passato”. Mangia pizzetta, una eh?! Io ne ho trangugiate 15; lei chirurgo, io operatrice ecologica sezione smaltimento umido. Anche il concetto è quello, non fa una mezza grinza, è così.
Quindi vedremo e abbiamo visto, coreografie nate per avvenire in uno spazio sconosciuto, in cui la danza vi si appoggia sviluppando nuove soluzioni, dalle scarpe usate ai movimenti, all’attitudine dei danzatori in un continuo dialogo con una terra da conquistare. Questa non è una cosa nuova, non è che io e la Stef si stia qui a raccontarvi che l’acqua si scalda col boiler ( leggi mangiare pizzette), ma ci sembrava opportuno parlare un po’ di quel posto dove succedono cose belle, e allargarlo. Tempo fa tenni lezioni all’Università di Siena, spiegavo che tutto era spazio da modificare con la danza; segnai in terra con dello nastro adesivo il mio contenitore e feci entrare gli studenti dicendogli che avrebbero potuto sondarlo e di non guardare i movimenti che venivano fatti ( molto semplici chiaramente) ma l’aria che si spostava intorno. Che ci crediate o no abbiamo parlato di geometria e fisica ( le linee e la dinamica), di filosofia e storia ( cosa sono e come vengo rappresentato), di tempo e comunicazione ( come arrivo a dire ciò che voglio e con che ritmo). Questo succede in quel posto magico lì. Non lo sottovalutate. Ho mal di pancia da pizzetta. “Posso farmi un tè, Stef?”
Margherita Mana