Quando pensi di sapere un po’ di cose e le guardi come un piccolo tesoro in uno scrigno, dovresti farti venire il dubbio che fuori da esso c’è un mare di cose che ignori. Grosse onde che fanno di te un povero ignorante. lo so, quest’inizio non è troppo edificante, mi dispiace dirvelo, ma tant’è. O almeno io ero così. Cioè delle cosette le sapevo: c’erano delle ondine che mi lambivano i piedi ed erano piuttosto familiari, ma conoscere non è capire. Capire è apprezzare, è formare un gusto. Secondo me. “Questo è un tuo ‘assolo’, cara Marghe… scrivilo come lo danzeresti!”
La verità Stef, è che io non mi sento di dire addio a Trisha Brown. E neanche ho voglia di spiegare il suo lavoro, perché tutti, ma proprio tutti, si metteranno lì a farlo. Parleranno della possibilità di esplorazione dello spazio che aveva Trisha, come “Indiana Jones e la crociata del non far danzare i muscoli”; della capacità di composizione viva e pulsante che la spingeva a perdersi in corpi che prima parevano una serie di cellule impazzite e poi prendevano logica e forma, in una consequenzialità impressionante. Parleranno della capacità di stupire gioiosamente, di prendersi gioco della gravità. Oh, Mrs Brown quanto amavo quest’aspetto: intellettuale e fanciullesco.
Ero ignorante, (cioè avevo già danzato per Steven Petronio suo allievo e danzatore nel video che stavo per guardare, ma senza capirci molto a dire il vero), quando davanti a uno schermo del Lincoln Center vidi “SET AND RESET”.
Campane a festa, treno dei Lumière, Titanic e iceberg, sinapsi che cozzano e si abbracciano. Lo vidi una decina di volte di seguito, ridacchiando e commentando tra me e me, dando massima prova di insanità mentale a coloro che si affacciavano da altri schermi della videoteca, giusto un tantino seccati dalla mia condotta poco consona a un luogo di studio. Who cares?!
SET AND RESET è un pezzo che secondo me descrive bene il percorso compiuto da questa coreografa: c’è una parte di improvvisazione, ci sono situazioni che si formano e si slegano. E’ un gettare i dadi e poi osservarne la forma dall’interno. La qualità del movimento è estremamente rilassata ma energica. Le spinte dinamiche e i fuori pesi sono talmente chiari che ti fanno l’occhiolino e ti pagano un gelato.
“Non puoi danzare, se non l’hai mai visto”.
No! Dico davvero, Stef. Non è possibile. Quindi io stringo il campo e vi invito a guardarlo, come faccio io ancora adesso nei momenti in cui ho bisogno di chiarezza. Quello che ho imparato io da Lei è che la comprensione forma il gusto; l’ho capito provando un piacere intenso, trovando nelle sue composizioni e nel suo linguaggio una coerenza che in qualche modo mi apparteneva e appartiene profondamente. Ho studiato nella sua scuola e seguito un po’ di conferenze da lei tenute, sarei rimasta a sentirla chiacchierare per ore. Tutto sensato, tutto omogeneo e intimamente legato ai suoi lavori.
Allora Mrs Brown era reduce dal suo “ORFEO”, che vi invito a guardare come fulgido esempio di un’opera che si mette al servizio della danza (post modern peraltro), a cominciare dai cantanti e non viceversa, come succede in polverose regie che aizzano lo sbadiglio fin dal titolo!
Quando dico che un maestro non crea cloni, ma aiuta a trovare il proprio modo, intendo dire che, a largo spettro, l’arte ci insegna questo e la danza ancora più intimamente, giacché ci spinge a lavorare su piani fisici, emotivi e intellettuali intersecati. Mi appoggio alla sicurezza che i suoi lavori formeranno ancora generazioni di danzatori e di amanti dell’avventura del corpo, Mrs Brown.
Grazie un milione di volte. La parola “addio” mi pare, per queste ragioni, davvero impossibile.
Margherita Mana