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‘LE SACERDOTESSE DEL DIO DELLA COREOGRAFIA’
Giustamente la Marghe ha pensato di mettere in risalto delle figure essenziali nel processo che si attua durante la realizzazione di una composizione; poiché si tratta di un argomento delicato e complesso più di quanto forse non sia, ha risolto la situazione utilizzando una metafora intorno ad archetipi che normalmente la danza si porta dietro. Il suo senso pratico innesta le osservazioni che andranno oltre.
“Si sa, i coreografi sono disordinati…”, afferma subito guardandomi ma non vedendomi affatto e prosegue.
Devono gestire “la creazione”: inventare passi e situazioni coreografiche, pensare all’economia del kronos e del kairos all’interno della loro opera e, cosa più temuta di tutte, scegliere.
Fare il COREOGRAFO significa innanzitutto scegliere. Una musica, un tema, dei danzatori, lo spazio, i costumi, le luci, le pettinature, le scarpe, le date e le “paturnie” da far sopportare a tutti coloro che circondano questa figura di semidio, a volte dio se ampiamente riconosciuto dalla critica… E’ fuori discussione che lui sia il SOMMO ARTEFICE, si prenda il carico e la gloria tutto da solo.
Apro una parentesi: io attribuisco al coreografo il genere maschile per comodità di scrittura, ma se un pochino mi seguite avrete intuito che le creazioni che preferisco sono “casualmente” state realizzate da donne. Attenzione questo non è un articolo femminista, se vi fa piacere e lo ritenete più soddisfacente, terminate pure tutte le parole con il genere femminile. Ecco ora che ci siamo messi d’accordo riprendiamo dal DA SOLO.
No, “da solo” non esiste. Esistono delle figure, spesso di donne, che soprannominerò le SACERDOTESSE, che si prendono in carica la creazione tutta e ne fanno ordine e pulizia, la riassestano se, nell’onda creatrice qualcosa è andato storto. Insomma delle ASSISTENTI (gloria e pace a loro sempre). Sono persone che spesso hanno vissuto intensamente come danzatrici il lavoro del dio, magari diventandone muse, condividendone i successi e i momenti di gap professionali. Sono gli assi nella manica del creatore di danza, donne pratiche. Spesso informano il sunnominato del fatto che debbono spostare l’orologio per via del cambio dell’ora legale, perché l’abbiamo detto prima, non si può pretendere che una divinità si occupi anche di ciò. Gli dei sono storicamente poco organizzati, figuriamoci gli dei artisti!
Insomma, le sacerdotesse promulgano il culto e difendono, ripuliscono senza interpretazione personale, ma adattando al linguaggio del testo sacro, il brano che non è coerente o magari è fuori musica. Io ho sempre provato molta ammirazione per esse, soprattutto quando mi è capitato di lavorare con persone che erano state al fianco di Balanchine, Limon o Cunningham.
Per esempio, Patricia Neary, danzatrice fantastica del NYCB, che parlava con mister B durante le prove ed era la sua voce in sala ballo, come una specie di bizzarro esperimento tra arte ballettistica e una seduta medianica. Lei è l’incarnazione della mia teoria, è la parola di Balanchine che visita una compagnia, che rimonta in un gioco di rimandi continui al passato la sua opera, conservandola con dedizione e scrupolo estremo. Nulla di ciò che dice è fuorviante rispetto all’opera del maestro. La farina del suo sacco c’è nella misura delle cose che ha imparato direttamente dal dio. Per un danzatore di oggi, che mai avrà la possibilità di sperimentare l’apprendimento di un balletto di Balanchine da lui stesso, ahimè, è oggettivamente l’unica possibilità per fare un lavoro coerente e arricchente sotto tutti i punti di vista, sia personali sia professionali. La buona rimessa in scena dei suoi balletti quindi dipende molto da chi li rimonta, dalla bravura della sacerdotessa. Ma questo è scontato, ve lo dico per chiacchierare e per informarvi, per chi non lo sapesse, del lavoro impagabile di queste vestali. Va detto e molto bene specificato, che le sacerdotesse non diventeranno mai divinità. Il genio non si impara come si impara un linguaggio coreografico. Non ci sono avanzamenti di livello. Inutile protestare coi sindacati.

patricia-neary-balanchine
“Non credo che una vera sacerdotessa auspichi a cambiare il suo ruolo. Non rientrerebbe nella propria natura, se ci pensiamo bene. Se quello che ha detto la Marghe ha la coerenza che vi sento io.
Alle volte devi andare lontano per scoprire qualcosa di te che ti è sempre appartenuto. Nella danza tutto è in gioco in un intricato vissuto fra realtà diverse che cercano una dimensione comune. Andai a studiare in America per scoprire che ‘avevo buoni occhi’, questo mi disse la mia maestra di danza. Una dote che ho imparato a sfruttare molto più tardi; perché allora volevo avere buoni piedi, belle gambe, superlativi salti, ottimi giri, braccia comunicative, ecc…”. Col tempo capisci e se hai un poco di fortuna, puoi essere ciò che sei con soddisfazione.
Le sacerdotesse si innamorano dei loro dei perché li apprezzano, sono le sole che vedono il balletto un po’ storto da raddrizzare e, come delle madri premurose, aiutano, migliorano, incoraggiano. Compagne di estro creativo.
“Ci ho pensato, Stef! E sento che è davvero naturale: che cos’è la fede se non amore?”.

Margherita Mana e Stefania Sanlorenzo

foto: Patricia Neary, assistente di Balanchine
foto di copertina: Sara Stackhouse, assistente di Limon

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