di Margherita Mana
Non ha importanza il gesto, cioè l’ha, ma non deve essere solo quello.
Mi rendo conto che iniziare un articolo così è da folli, sopratutto se si tratta di uno di quelli che pretendono di spiegare alcune cose che si sono vissute in prima persona, ma riguardano qualcosa che interessa chi ti legge. Per quanto anche questo non sia un inizio proprio liscio, vado a spiegarmi.
Piemonte dal vivo, una alacre associazione che si occupa di cultura teatrale e divulgazione sul territorio, mi ha chiesto di partecipare, in qualità di esperta, (AH!!) a un incontro con il pubblico prima dello spettacolo di Emanuel Gat al Vignale Festival.
Il programma della serata è bello: un duetto, che è un po’ lo scheletro e il sunto di ciò che può accadere tra due danzatori del coreografo israeliano e la sua Sagra della primavera. PERFETTO SONO UNA FAN.
Seguo Gat da tempo; prima di sapere chi fosse, trovavo un suo video e con la leggerezza di una trota in maionese, mi gustavo la danza senza farmi domande su chi fosse l’autore. Solo io! Questo lo so da poco, perché facendo un po’ di ricerche mi sono accorta che sono sua ammiratrice da anni, ignorandolo. Lasciamo stare… Ma non è tutto, nel mio stato vegetativo costante e ostinato, non avevo mai “davvero” realizzato che La Sagra della primavera fosse stato commissionato a Stravinsky come balletto. Apro una parentesi per discolparmi almeno un pochino: le musiche dei balletti spesso sono brutte. Molto brutte. E ovviamente salvo in toto la produzione di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Il resto è una trapunta di zumpa-zumpa. Anche in questo, i Balletti Russi hanno fatto la differenza. Sulla musica e la prima edizione della Sagra, avrei da scrivere moltissimo, e abbiamo deciso con la Stef che lo faremo durante l’anno, giacché merita. Parto, armata di acume e simpatia, sempre quello della trota in condimento, alla volta di Vignale, per rimanere subito bloccata in autostrada da un incidente. Dopo un po’ di coda finalmente eccoci sulle colline monferrine, dolci come bonet e sapide come le acciughe al verde. Se non siete piemontesi, non potete capire… Va detto che mentre sto scrivendo ho fame.
Arrivo giusta giusta per le prove di scena; ero attesa, avevo audacemente chiesto a Gat il permesso di assistervi. Lo trovo che danza, e senza disturbare mi siedo in disparte e osservo. Tolgo la maionese dagli occhi.
Sono cinque danzatori: tre donne longilinee e due uomini, oltre Emanuel, un ballerino con la barba. Interessante questa cosa della barba, non una barba accennata, proprio un bel barbone; poi ci torno su. Cominciano a cadenzare la musica con dei passi base di danze caraibiche, ma le coppie non tornano e a ogni mano che non viene presa, ogni volta che la coppia non si forma c’è un piccolo strappo, che è quello del dispari. Cioè non succede niente. I passi vanno avanti lo stesso, come la scena di Indiana Jones e l’ultima crociata quando lui cammina su una passerella invisibile. Il passo che apparentemente dovrebbe cadere nel vuoto, non si verifica. Proprio questa assenza rende necessario andare avanti e continuare a ricamare ritmiche e intrecci. Il luogo è un tappeto da salotto rosso, la socialità si consuma lì, nessun altro orpello. Il buio frammenta la danza, come la linea lunga sulla tastiera, sulla quale sto scrivendo, spazia e dà le pause, produce un effetto di dissolvenza che diventa un momento di respiro e attesa bellissimo. Poi c’è il gruppo che si muove insieme, a tempo, senza fare le stesse sequenze, ma con i danzatori legati da fili invisibili che ne stabiliscono una relazione spaziale chiarissima. Mi piace quando succede, perché è un modo che lui ha trovato, secondo me, per guardare, creare e mettere in scena l’entropia: mettere in correlazione spaziale e dinamica due corpi, tre, cinque fa sì che il gruppo sia omogeneo, anche se non lo è per nulla.
Mentre succede questo, la prova si interrompe, le cose vengono ripetute, e, a ogni ripresa, mano a mano che le tracce musicali vanno avanti e diventano acri, anche la danza assume una forma di ferocia inaspettata. Più veloce, sempre un ricamo di intrecci, ma con spostamenti di peso, prese repentine… certo la musica mi condiziona come il fatto che io conosca la storia, ma sento che nelle intenzioni non c’è più quella formalità dell’inizio, c’è qualcosa di più aspro e selvaggio, come un diverbio che nasce pacato e finisce urlando.
E’ finito.
Vado a salutarlo: è in un angolino che si cambia, mi sorride, mi saluta, lo ringrazio e chiedo se si diverte ancora a danzare visto che me lo chiedo anche io e siamo coetanei; mi risponde alle volte si alle volte no. Facciamo una foto insieme nella quale io vengo malissimo, ma che tengo cara. Vado via pensando che non sono riuscita a dirgli quanto avrei voluto danzare quella cosa anche io.
Ah, il ballerino ha la barba perché non è rappresentazione di un ballerino, ma è la persona che danza. E’ lui con la sua barbona, le sue idee, la sua vita che danza.