Il Maestro Joseph Fontano dal 1989 è docente di ruolo presso l’Accademia Nazionale di Danza di Roma, dove insegna danza contemporanea, composizione coreografica, concetti Laban, performance e progettualità.
Presidente del World Alliance Dance Europe, è stato anche Presidente dell’International Dance Committee – International Theatre Institute dell’UNESCO dal 2009 al 2013, ma al di là delle cariche importanti e rappresentative, egli stesso ha definito i primi confini della storia della danza contemporanea in Italia.
Noi di iodanzo.com abbiamo potuto farci raccontare “questa storia” direttamente dal Maestro e abbiamo cercato di capire insieme a lui dove stia andando la danza contemporanea in questi ultimi anni.
Qual era la situazione della danza quando è tornato in Italia, dopo la sua personale formazione americana, e nella collaborazione con Elsa Piperno come avete affrontato un ambito ancora inesplorato quale quello della danza contemporanea?
Nel 1971 decisi di trasferirmi a Roma dove, presso il CID (Centro Internazionale della Danza), ho incontrato Elsa Piperno e con lei, l’anno scuccessivo, fondammo la prima compagnia di danza contemporanea in Italia,“Teatrodanza Contemporanea di Roma”.
Non solo c’era terreno fertile per introdurre dei cambiamenti nella danza italiana ma eravamo anche in una situazione socio-politica-culturale propizia. L’Italia usciva dal ’68 con tutte le sue ribellioni in campo sociale, e quindi umano; perciò con la voglia di scoprire qualcosa di nuovo e di esprimerlo anche nelle scelte stilistiche di una disciplina che lavora sul corpo e sul suo movimento: si pensi a un diverso approccio verso la sessualità, liberata da molti tabù.
I cambiamenti poi avvengono quando il lavoro di qualcuno – in questo caso degli artisti – cambia la situazione di chi questi cambiamenti li vive sulla propria pelle.
Quando Elsa Piperno ed io abbiamo iniziato il nostro lavoro, non pensavamo davvero che avremmo lasciato un segno che sarebbe rimasto nel tempo (uno se lo augura ma non lo immagina del tutto); ma gli artisti fanno quello che fanno e se il lavoro è sincero e vero allora si costruisce davvero qualcosa di duraturo. Noi avevamo una visione: dovevamo dimostrare che la danza contemporanea non era solo quella che si faceva se la danza classica non era alla portata del ballerino.
Io ero davvero giovanissimo, avevo appena 21 anni, ma ero già colmo di un’esperienza americana nella quale avevo danzato con Jerome Robbins, avevo vissuto a pieno New York, e quando sono tornato in italia ho trovato il deserto per quanto riguardava la danza contemporanea.
Ci siamo dovuti confrontare con un Ministero che non ne aveva mai nemmeno sentito parlare, con i critici, che sostenevano che questo fosse il paese della danza classica e tale dovesse restare. Persino quando abbiamo debuttato e coniugato i termini Teatro-Danza, ci è stato detto che era un nome ‘carino per una Compagnia’ ma che non sarebbe mai durato.
Abbiamo quindi dovuto realmente insegnare a queste persone cos’era la danza contemporanea incominciando da zero: facendo lezioni dimostrative nelle scuole, andando nelle piazze, insegnando le basi di quei movimenti che si distaccavano dalla danza classica, anche se quest’ultima ne rimaneva la base.
Un’altra battaglia che abbiamo dovuto affrontare è stata quella per far sì che la parola ‘balletto’ si riferisse solamente alla danza classica e non comprendesse tutte le discipline.
Ancora adesso ci tengo moltissimo a precisare che bisogna fare attenzione alle terminologie che si usano: non esistono il ‘classico’ e il ‘contemporaneo’ ma la ‘danza classica’ e la ‘danza contemporanea’.
Insieme a Elsa Piperno, oltre alla Compagnia, ha creato anche il Centro Professionale di Danza Contemporanea
Sì! Il nostro punto forte è stato costruire un centro con un vivaio di danzatori (e non solo) che sono usciti nel mondo e hanno poi realmente, come un ruspa, mosso le montagne che ci trovavamo davanti. Al di là della scuola e della Compagnia, al Centro Professionale di Danza Contemporanea abbiamo tirato fuori anche dei critici fondamentali per la storia della danza contemporanea. Donatella Bertozzi, Lionetta Bentivoglio escono da questo Centro, coreografi di fama internazionale come Fabrizio Monteverde, Gabriella Stazio e molti altri, compositori come Arturo Annecchino, Antonio Coppola… persone che sono poi realmente andate nel mondo a coltivare la nostra visione.
Voi siete stati, non senza fatica, dei veri e propri pionieri. Oggi è ancora possibile apportare cambiamenti così consistenti nell’ambito della danza e anche in generale dell’arte, data la commistione di generi cui spesso si assiste?
Non sono negativo sotto questo punto di vista ma, a mio parere, quello che manca oggi è la curiosità, in chi vorrebbe fare questo mestiere. È difficile che un artista sia tale senza la curiosità; perché è questo slancio che ci fa cercare e ricercare ancora, senza fermarsi mai.
C’è un’omologazione della danza contemporanea in Italia che è diventata un pochino mediocre e manca di creatività (data dalla mancanza di curiosità). Per alcuni è meglio puntare a situazioni mediatiche che lavorare con veri docenti ma così perdiamo la bussola. La danza ha bisogno di tempo: è un lavoro costante. L’arte non si crea improvvisamente ma scaturisce da quello che tu ti dedichi tutti i giorni a fare. La danza sta in ogni respiro, in ogni parola che diciamo. L’artista completo affronta la vita che va oltre al proprio lavoro.
Quando mi chiedono che cosa sia la danza per me, non saprei rispondere, perché mi sveglio ogni mattina e la ricerco in ogni cosa.
Inoltre vi è un altro problema: io ho sempre creduto che la danza fosse una professione, che insegnare, danzare e coreografare, fossero lavori che vanno retribuiti, ma quando, come in questo momento storico, non ci sono posti dove lavorare, si creano situazioni basate su un lavoro mediocre. Pur di portare in scena un’idea o una passione ci si trova a fare due/tre settimane di prova e si va in scena senza una preparazione adeguata. E la gente se ne accorge eccome!
Noi avevamo il lusso, perché ormai di lusso si tratta, di provare anche sei mesi e poi portare in scena anche 150/160 spettacoli in un anno.
La nostra Compagnia è durata 18 anni e ha ottenuto una così grande diffusione grazie soprattutto alla grande curiosità da parte del pubblico, ma anche dei media come la televisione.
E adesso invece questo interesse è scemato?
Questo è il mio grande colpo al cuore! I nostri spettacoli erano sempre stracolmi, la nostra Stagione al Teatro dell’Opera di Roma con la Compagnia fece undici repliche sempre sold out, esauriti; al Teatro Quirino, all’Argentino, all’Olimpico era lo stesso. Abbiamo dovuto prendere teatri grandi perchè altrimenti dovevamo lasciare a casa qualcuno.
La nostra escalation è stata alimentata proprio da un pubblico che ha riconosciuto il grande lavoro. Adesso invece, per le nuove Compagnie, prendere un teatro grosso è un suicidio e questo fa davvero male.
Lo scorso anno abbiamo però partecipato a un esperimento: Marina Michetti, una vera Signora della danza, ha pensato di ricostruire le coreografie di danza contemporanea degli anni ’70, con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali, e la prima tappa è stata con me ed Elsa Piperno. Devo ammettere che il teatro era pieno, quindi non riesco ancora a comprendere bene le dinamiche che fanno interagire produzioni e pubblico. Forse manca l’educazione del pubblico. Nel nostro paese si bada alla storia del cinema, alla storia del teatro, della musica, dell’arte, ma non alla storia della danza. Non è chiaro il concetto che anche qui vi siano state delle persone che abbiano creato una strada che altri hanno potuto percorrere.
Questo è assurdo, anche perché la danza è un’arte strettamente collegata a quelle appena citate. È un’arte visiva, non uditiva, e questo ci tengo a dirlo. Noi siamo stati primi a usare le ormai famose proiezioni, oppure il body painting con i corpi dipinti dalla testa ai piedi. Non è chiaro che tutto è arte e non che ogni settore è a sé.
Qual è la situazione della danza contemporanea in questo momento, secondo lei?
È difficile per me estrapolare la situazione della danza contemporanea dalla danza in genere in questo momento perchè è diventato un tutt’uno e tutto è diventato burocratico.
L’Italia non ha mai vissuto una evoluzione e questo si riscontra anche nella danza: c’è la scuola, il gruppetto di persone che si mettono insieme, l’ente locale che elargisce qualche migliaia di euro per il progettino e tutti sono contenti; l’assessore fa bella figura, il Comune anche, e gli artisti non vengono pagati mai. Manca il fatto di aver creato realmente la professione.
Il mondo della danza è fatto di molte professionalità: chi produce abbigliamento, chi affitta il teatro, chi fa il service, chi affitta o costruisce il pavimento, l’ufficio stampa, ecc… ma il danzatore non viene mai pagato. La qualità deve essere pagata.
Persino gli Enti Lirici si stanno smantellando quando avremmo le basi per avere tre, se non quattro, Compagnie Nazionali (Teatro alla Scala, Teatro San Carlo, Opera di Roma, Massimo di Palermo).
Ognuno pensa di possedere il verbo e si discute del valore dei titoli. Ma i titoli non hanno senso se non si ha una professione!
Nella mia carriera ho anche fatto parte della scrittura di alcuni decreti ma il sistema pubblico che si è creato, è davvero mediocre. Si cerca sempre di dare il contentino. Nemmeno i licei coreutici sono professionalizzanti ma licei in cui si danza anche. Si cerca sempre di diluire la qualità. La professione che io e la Piperno abbiamo creato, gli stage, la figura dell’insegnante di danza classica, hanno preso piede perché abbiamo avuto una visione ma la visione di oggi è la poltrona, il posto fisso; mentre l’istituzione è la morte della creatività.
Però, in conclusione, la speranza nasce nel vedere che ci sono molti giovani interessati alla danza contemporanea, diversamente da prima; perché adesso si rendono conto che non c’è molto spazio nella danza classica in questo paese. Purtroppo quello che non esiste più è la danza contemporanea dei nostri grandi capostipiti, basata su uno stile. Ora c’è questo fusion, questa contaminazione… a me sta bene che vengano inglobati molti stili, perché lo spettacolo non deve essere definibile come una ‘tecnica’, però deve avere uno stile.